Non sono mai banali i film di Drew Goddard. Certo, non sono neanche numerosissimi, se si considera che questo “7 sconosciuti a El Royale” è appena il suo secondo lavoro, a sei anni di distanza da “Quella casa nel bosco”. Di sicuro più corposa l’esperienza accumulata nelle vesti di sceneggiatore e produttore, sia televisivo (“Lost”, “Buffy”, “Daredevil”) che cinematografico (svetta la nomination agli Oscar 2016 per la miglior sceneggiatura con “Sopravvissuto” – “The Martian”). Tuttavia, già nel 2012, il giovane autore statunitense aveva dimostrato tutto il suo talento dietro la macchina da presa. Già, perché “Quella casa nel bosco” rappresentò un esordio tanto folle quanto esaltante. Un film fuori dagli schemi, costantemente in bilico tra orrore e commedia, capace di portare avanti un’originale analisi meta-testuale sulle regole grammaticali e sui cliché dell’horror statunitense e di impreziosire il discorso con un citazionismo colto e una velata critica sociale. Due elementi che ritroviamo anche in “7 sconosciuti a El Royale”, sebbene cambino genere di riferimento (non più horror, bensì pulp) e ambientazione (non più l’America moderna, ma quella di fine anni ’60).
1969. Quattro viaggiatori – un anziano prete (Jeff Bridges), una cantante afro-americana (Cyntha Erivo), un loquace venditore di aspirapolveri (Jon Hamm) e una scostante hippie (Dakota Johnson) – giungono a El Royale, un lussuoso ma ormai dimenticato albergo/casinò, situato lungo il confine tra California e Nevada. Ad attenderli il giovane concierge della struttura (Lewis Pullman). Non ci vorrà molto prima di scoprire che i quattro avventori e il custode, ai quali si aggiungeranno in seguito altri due personaggi (interpretati da Cailee Spaeny e Chris Hemsworth), nascondono molti più segreti di quanto non vogliano dare a vedere. Un po’ come l’enorme struttura che li ospita: ed ecco che tra specchi unidirezionali, refurtive nascoste, telecamere segrete e bobine compromettenti lo spettatore verrà trascinato all’interno di un coinvolgente noir ricco di colpi di scena.
La premessa di un gruppo di sconosciuti dalle identità ambigue, bloccati all’interno dello stesso luogo in un clima di reciproco sospetto e crescente tensione non può non suscitare un immediato e istintivo collegamento con “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino. Ma i rimandi al padre del genere pulp non si esauriscono qui. Basti pensare alla maniera in cui viene sviluppata la narrazione: divisa in capitoli e affidata al punto di vista di diversi personaggi, portando in questo modo lo spettatore a rivivere lo stesso evento sotto diverse prospettive (come avviene, appunto, in “The Hateful Height”), oltre che intervallata da lunghi flahback (come avviene ne “Le Iene”) che aiutano a conoscere le backstories dei protagonisti. Se a questo si aggiungono una certa verbosità nei dialoghi e un finale sanguinario a colpi di pistole, ecco che il parallelismo di cui sopra si dimostra ancor più legittimo.
Ma, d’altronde, che Goddard fosse un regista estremamente citazionista lo si era già intuito guardando “Quella casa nel bosco”. Film col quale, però, aveva anche dimostrato una sapiente e accurata conoscenza degli schemi e dei meccanismi del genere di riferimento (in quell’occasione, peraltro, capovolto e destrutturato). Cosa che conferma in questo suo secondo film che, proprio per tale motivo, sarebbe ingeneroso etichettare come uno dei tanti cloni del filone “tarantiniano”. Goddard assimila le lezioni impartite dal regista di “Pulp Fiction” e “Kill Bill”, per poi rielaborarle in base al proprio stile, facendo sì che “7 sconosciuti a El Royale” si presenti come una divertente e divertita variazione sul tema, piuttosto che una sbiadita e spersonalizzata imitazione.
Un film che, pur essendo un’opera di genere che fa dell’intrattenimento il suo fine primario, dimostra di possedere una certa impronta autoriale. Le scene di tensione sono gestite ottimamente, i numerosi jump scare sono quasi sempre imprevedibili e mai gratuiti e il dilatamento temporale di alcune sequenze (come quella che vede la cantante Darlene esibirsi per coprire le losche attività di “ricerca” di padre Flynn) conferisce alle stesse intensità e magnetismo. La regia di Goddard è curata e dettagliata e l’ottima scenografia contribuisce a far sì che l’hotel all’interno del quale si svolge l’intera vicenda diventi un vero e proprio protagonista della storia, al pari dei sui sette ospiti/prigionieri.
Certo, né la scrittura dei dialoghi (forse un po’ troppo appesantita nelle scene iniziali) né la caratterizzazione dei personaggi (che in alcuni casi tradisce qualche piccola incongruenza) raggiunge i livelli a cui Tarantino ci ha da tempo abituati, ma nel complesso “7 sconosciuti a El Royale” si dimostra un film sicuramente riuscito. Un film che coinvolge lo spettatore in un’appassionata indagine alla scoperta della vera natura di personaggi ambigui e contraddittori, che vengono presentati sotto una luce che muterà completamente una volta comprese le vere motivazioni che si pongono alla base delle loro azioni.
Il tutto ponendo sullo sfondo una serie di tematiche sociali indissolubilmente legate all’America di quegli anni: dagli orrori ereditati dalla guerra del Vietnam alla fascinazione per le sette “mansoniane”, dalla serpeggiante discriminazione razziale in sfavore degli afroamericani alla paranoia e all’ossessione per la sorveglianza e l’intercettazione. Il tutto tirando in ballo personaggi come Nixon e (forse) J. F. K.
Meritevoli di menzione l’ottima prova offerta dalla cantante Cynthia Erivo, in un ruolo che inizialmente era stato pensato per Beyoncé, e del decano Jeff Bridges, che come sempre si conferma una sicurezza. Tutto sommato convincente anche la prestazione offerta da Chris Hemsworth (che già aveva lavorato con Goddard in Quella casa nel bosco), nei panni inediti di un cattivo sadico e seducente.
In definitiva, “7 sconosciuti a El Royale” è un più che sufficiente noir dalle venature pulp che tiene sulla corda lo spettatore per tutti i suoi 141’ grazie ad una narrazione piena di colpi di scena e misteri da svelare. Dopo aver giocato a smontare e rimontare l’horror e aver omaggiato Tarantino, misurandosi in un lavoro dalle più alte ambizioni di botteghino, chissà cosa ci sarà da aspettarsi da Drew Goddard per il futuro. Quel che è certo è che non si tratterà di qualcosa di banale.