«Bisogna conoscere la storia per capire il presente e orientare il futuro».
È come se Roman Polanski con il suo ultimo, attesissimo lavoro, “L’ufficiale e la spia” (dall’originale – e più efficace – “J’accuse”), avesse voluto far propria questa massima di Tucidide. L’ufficiale è Georges Piquart (Jean Dujardin), capo della sezione di controspionaggio dell’esercito francese, la spia – o presunta tale – Alfred Dreyfus (Louis Garrel), capitano ebreo-alsaziano che nel 1894 venne accusato di alto tradimento e condannato alla prigionia (da scontarsi in isolamento sulla disabitata isola del Diavolo).
C’è, dunque, il celeberrimo “affaire Dreyfus”, passato alla storia come uno dei più clamorosi e controversi casi politico-giudiziari, alla base del racconto di Roman Polanski (che di processi penali dal forte risalto mediatico ne sa pur qualcosa). E, infatti, non poche polemiche hanno accompagnato la partecipazione del film alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia (alimentate anche dalle dichiarazione del presidente di giuria Lucrecia Martel). Polemiche che, però, non hanno impedito a “L’ufficiale e la spia” di portare a casa un prestigioso Leone d’Argento. Premio più che meritato, a ben vedere. Perché dopo un paio di prove sottotono (su tutte il non troppo ispirato thriller psicologico “Tutto quello che non so di lei”) Polanski torna a regalarci un grandissimo film: granitico, elegante, impeccabile. Un film degno di un cineasta del suo livello.
La narrazione scorre lungo i suoi 126 minuti di durata senza mai gravare lo spettatore, per poi sfociare, verso il finale, in un trascinante crescendo. La sceneggiatura è inattaccabile, la messa in scena semplicemente fantastica. Dagli sfarzosi – eppure sempre algidi – palazzi del potere, ai polverosi e decadenti interni (gran parte del film si consuma in uffici, appartamenti, aule di tribunali), fino ad arrivare ai bellissimi costumi. Tutto è riprodotto con la più grande dovizia di particolari e il più meticoloso rigore storico. C’è quasi un piacere tattile, poi, nell’osservare i personaggi maneggiare documenti, faldoni, telegrammi e scartoffie varie (presenti in quasi ogni scena del film). Grande esempio di sinestesia cinematografica.

Un’opera di ampio respiro, dunque, che si pone in netta discontinuità con i recenti lavori, più “chiusi” e d’impronta quasi teatrale, “Carnage” e “Venere in pelliccia”. E a sorprendere è che un film del genere arrivi da un regista ormai pluri-ottantenne.
Polanski si serve di uno dei più famosi errori giudiziari della storia, adattando l’omonimo romanzo di Robert Harris (con il quale aveva già collaborato ne “L’uomo nell’ombra”), per concentrarsi su temi di assoluta attualità come la manipolazione delle notizie, la violazione delle libertà personali da parte dei governi, i nazionalismi, l’odio razziale. In tempi di fake news e di sorveglianza di massa, di rinnovato apprezzamento per le destre e di sovranismi, ecco che il racconto di un caso di fine ‘800 si presta come strumento ideale per «capire il presente e orientare il futuro». Perché l’affare Dreyfus, che si concluse con la (seppur lenta) riabilitazione dell’innocente capitano, ci insegna a perseguire ideali di verità e di giustizia, anche andando contro i poteri precostituiti. A obbedire alla legge interiore che fa capo alla nostra morale e non a quella terrena imposta dall’autoritarismo dei nostri governi.
È quello che farà l’ufficiale Piquart che, come Polanski evidenzia in più di un’occasione, conosceva a malapena Dreyfus. Di certo non vi era legato da simpatia o amicizia, tutt’altro. Seppur pervaso da quel sentimento radicalmente diffuso di antisemitismo (sotto questo aspetto la Francia di fine ‘800 ci viene presentata come un’incubatrice di odio razziale, una polveriera pronta a esplodere nell’orrore che una trentina di anni più tardi sboccerà in Germania) il capo dei servizi segretifrancese metterà a repentaglio la propria carriera, la propria immagine e addirittura la propria vita. Perché così dev’essere. Perché questo si richiede a un uomo giusto, che persegue il vero, che ama il suo Paese a tal punto da andare contro coloro che lo guidano nella maniera più abietta e ignobile .
Nell’affrontare temi sociali così urgenti Polanski riesce comunque a realizzare un film estremamente intimo e personale. Perché quell’odio antisemita verso il quale si grida «J’accuse!» lui l’ha vissuto sulla propria pelle (e poi raccontato meravigliosamente con “Il pianista”). Così come ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze destabilizzanti di certe vicende penali, seppur non viziate da errori giudiziari. E anche in questo si ritrova la grandezza di un film dal sapore classico, che è espressione di grande cinema. Così come lo è stata tutta la carriera di uno dei più grandi maestri di quell’arte che proprio negli stessi anni e nella stessa Francia di Dreyfus nasceva.