Il concerto celebrativo per i cinquant’anni di Woodstock non si farà. Almeno così sembrerebbe, stando all’annuncio rilasciato lo scorso 29 aprile dalla Dentsu Aegis Network, società organizzatrice del festival. Problemi logistici e di sicurezza alla base dell’inaspettato dietro front che tanto sta facendo discutere. Soprattutto perché Micheal Lang, storico ideatore dell’evento originale, aveva annunciato già da qualche mese quella che sarebbe stata la line-up definitiva: ad alcuni veterani del 1969 (Santana, David Crosby, John Fogerty) si sarebbero aggiunti esponenti dell’alternative rock (The Black Keys, The Killers, Greta Van Fleet) e del pop contemporaneo (Imagine Dragons, Miley Cyrus, Jay-Z). E poco importa se, come sembra, 30 milioni di dollari fossero stati già investiti e molti degli artisti pagati. La Dentsu non finanzierà più Woodstock 50, perché «non ritiene che la produzione del festival possa essere eseguita come un evento meritevole del nome che porta».
Verrebbe, a questo punto, da chiedersi se il vero motivo di questa improvvisa ritirata sia davvero da ricercare, come trapelato, in problemi burocratici di permessi non ottenuti e di sicurezza pubblica (il concerto era stato programmato a Watkins Glen, nei pressi della location del festival originario), o altrove. Come, ad esempio, nella scarsa attrattiva della line-up di un festival evidentemente privo di quello stesso spirito dirompente che nel ’69 lo aveva portato a scrivere alcune delle pagine più importanti della storia della musica. Diversi i tempi, diverso il contesto socio-culturale, diversi gli artisti, verrebbe da pensare.

È chiaro che ricercare in un evento di questo tipo un’essenza diversa da quella della più classica delle operazioni nostalgia (e, perché no, anche commerciali) risulterebbe pretestuoso. Woodstock, per ovvi motivi, non può avere nel 2019 lo stesso significato politico-ideologico che ebbe per i giovani di cinquant’anni fa. Tantomeno la stessa rilevanza mediatica. Verrebbe, dunque, da interrogarsi sull’effettiva necessità di un evento dalla natura inevitabilmente anacronistica e, per questo, dalla pericolosa riuscita.
Dall’altro lato, si potrebbe dire che il cinquantesimo anniversario di un evento di simile calibro capiti una volta soltanto e che, pertanto, valga la pena celebrarlo. Purché lo si faccia nel migliore dei modi possibili. L’impressione è che la Dentsu non abbia tutti i torti quando parla di «festival non meritevole del nome che porta». E non tanto per la presenza di popstar e rapper tra gli headliner selezionati per le serate dal 16 al 18 agosto (sarebbe impensabile non tener conto delle attuali tendenze musicali, in favore di un improbabile revival nostalgico all’insegna dell’egemonia del rock), ma di nomi poco capaci di suscitare un adeguato entusiasmo tra il pubblico. Fatte le dovute – minime – eccezioni, la scaletta di Lang ha avuto il demerito di affiancare artisti ormai superati (per quanto storicamente rilevanti) ad altri solo sulla carta commerciali, ma di fatto non più di richiamo (si pensi ad Akon o alla stessa Miley Cyrus). Il risultato? Una scaletta trascurabile e incoerente: in altre parole, un fallimento annunciato.


La Dentsu ha deciso di staccare la spina, tuttavia la prognosi rimane riservata. Con l’aspettativa che, nei giorni a seguire, potremo conoscere meglio il destino di un festival che ormai sembra destinato a non farsi. E se la prospettiva era quella di passare dall’immagine di Jimi Hendrix, che con le dissonanti distorsioni della sua leggendaria Stratocaster bianca distruggeva e disintegrava l’inno degli Stati Uniti d’America nel pieno di una guerra tanto controversa quanto contestata, a quella di una folla danzante sulle note di Party in the USA, forse non ci dispereremo troppo.
Francesco Carrieri